Inauguriamo la nostra sezione di recensioni con un romanzo di uno scrittore molto noto alla comunità degli Appenninisti, Alberto Sciamplicotti (per gli amici Sciampli).

Molto spesso mi è capitato di leggere libri di alpinismo in cui l’autore si lascia andare ad una prosa tale da trasportare il lettore nel suo mondo, avvicinandolo ai suoi pensieri ed al suo stato d’animo, oltre che accompagnandolo per guglie e pareti.

Ma raramente ho letto romanzi in cui la montagna e la nostra passione per l’alpinismo fanno da sfondo a vicende che toccano da vicino tutti quanti, alpinisti e non. Livio e Paola sono i protagonisti di questo romanzo dello scrittore e documentarista Alberto Sciamplicotti, e le loro vicende sono ambientate negli anni novanta, in quel lasso di vita in cui si è lasciata l’adolescenza e si è entrati a tutti gli effetti nell’età adulta.

I protagonisti hanno la freschezza tipica di quell’età, freschezza che, però, si accompagna ad una certa dose di malinconia, di male di vivere, che viene affrontata con le armi che conosciamo: la frequentazione della natura. Quando ci troviamo in situazioni difficili, assieme ad un amico, il legame si fa più profondo e spesso trascende le normali manifestazioni tipiche dell’essere umano.

“La notte fra i due inverni” ci racconta le vicissitudini dei protagonisti inserite in un contesto più ampio, fatto di gite, di amici, di tragedie e di viaggi, lo fa in maniera a tratti leggera, e sempre con le nostre montagne sullo sfondo. Un’ottima lettura, posta a ponte fra il classico romanzo di formazione e il recit d’ascension, dove la montagna oltre a essere lo sfondo delle vicende assurge anche a protagonista, permeando della sua essenza tutte le vicende.

Alberto, quanto c’è di te in Livio e quanto invece è totalmente inventato?

A dire il vero, gran parte delle paure e delle emozioni del personaggio protagonista sono, o sono state, assolutamente mie. D’altronde credo che per comunicare emozioni in qualche modo, anche minimo, bisogna averle vissute. Poi sopra questa esperienza si possono costruire interi castelli di sentimenti con l’immaginazione, ma le fondamenta devono comunque partire da un dato reale. Le vicende raccontate invece non sono accadute realmente. Ho costruito un mondo, partendo dalle mie esperienze, in cui far vivere la storia che volevo narrare. Diciamo che delle esperienze border line vissute dal protagonista solo alcune sono mie, altre invece no. Chi legge potrebbe invece essere portato a pensare che “La Notte Fra i Due Inverni” sia un romanzo autobiografico. In realtà ho provato semplicemente a raccontare la difficoltà di affrontare e accettare la realtà, sia quella di un amore che finisce o nasce che quella della morte di una persona cara. Per questo ho scelto di non scrivere usando la prima persona singolare: avrebbe pesato troppo sul lettore portandolo ancor più a identificare l’autore non il protagonista. D’altronde non volevo nemmeno usare la terza persona singolare: è un racconto in qualche modo intimo, dell’anima, e temevo che questa scelta stilistica avrebbe allontanato il lettore dalle emozioni del protagonista. Così, ho scelto una via di mezzo: la seconda persona singolare. Una scelta sicuramente poco usuale, ma che ho pensato funzionale a quello che volevo trasmettere.

Da quanto tempo stavi pensando di scrivere una storia d’Amore ambientata in montagna?

Scrivo di montagna, come potrei scrivere di deserti di sabbia o di ghiaccio o racconti ambientati nella vastità del mare, perché l’ambiente naturale, con i suoi grandi spazi e i suoi tempi di azione dilatati, permette in modo naturale la riflessione. Ritrovarsi con sé stessi, camminando, arrampicando, sciando è per questo più facile. I pensieri in qualche modo hanno più facilità ad uscire da noi, riflettersi nella vastità che ci circonda e tornare così amplificati e spesso più chiari. Non siamo però fatti per vivere in solitudine, siamo animali da branco, viviamo per comunicare, essere empatici, e l’amicizia e l’amore fanno parte di questo modo di connettersi gli uni agli altri. Raccontare è narrare di emozioni e credo non ci sia sentimento più grande dell’amore di cui l’amicizia, comunque, non è che un aspetto. Unire quindi la montagna, i vasti spazi, e l’amore è stato naturale. Il contraltare del piacere emotivo è il dolore, la sofferenza, la solitudine, la mancanza. Raccontare dell’amore è contemporaneamente provare a raccontare anche di tutto questo. La morte è quello che c’è sull’altro piatto della bilancia della vita. Non potrebbe esserci piacere senza dolore, vita senza morte. Raccontare dell’uno vuol dire capire l’altro e viceversa. E’ accettare la realtà del nostro essere uomini. Ed è questa strada di accettazione quella che percorre il protagonista nelle pagine del libro.

Hai avuto bisogno di un consulente per localizzare le vicende del tuo romanzo o sono zone che conosci bene?

Per gli aspetti geografici no: sono zone che conosco abbastanza bene per averle percorse più volte, a piedi o d’inverno con gli sci, o per aver arrampicato sulle pareti del Gran Sasso o del Monte Bianco. Certo, che quando racconto, ad esempio, di ciò che accade durante una salita allo Sperone Frendo al Monte Bianco mi sono andato a rivedere la relazione della Guida Vallot. Anche perché non avendo percorso questa via, ma avendo solo visto lo sperone e seguito amici che lo salivano, volevo essere coerente con la narrazione e non inserire falsità per dare una credibilità maggiore alla storia. Poi, è anche vero che ci sono piccole ‘licenze poetiche’: come quando ad esempio descrivo le notti in alcuni bivacchi in Appennino. Luoghi di grande fascino sicuramente, ma forse non così confortevoli come potrebbero sembrare dal racconto. A dire il vero, una consulenza per la scrittura di questo romanzo l’ho voluta e cercata. Si è trattato di una serie di colloqui con uno psicologo per capire se le reazioni emotive del protagonista potevano essere plausibili.

Alberto Sciamplicotti scialpinismo in telemark (foto Elisabetta Preziosi)

Quale tua personale esperienza di vita vissuta in montagna avresti voluto inserire nel tuo romanzo ma non l’hai fatto?

A dire il vero, non ho mai pensato di inserire un’esperienza nel racconto per il solo fatto di averla vissuta. Tutto quello ciò che è raccontato è fatto in funzione solo della storia. L’epica della vicenda deve avere una base di partenza, un ostacolo che si presenta al protagonista, una soluzione (positiva o negativa) che lui trova per affrontare l’ostacolo e giungere alla conclusione della vicenda. Nel caso di “La Notte Fra i Due Inverni”, avevo deciso in partenza che il finale dovesse essere di speranza, positivo, ma allo stesso tempo non definito. Volevo che il lettore, portato a immedesimarsi nel protagonista e nelle sue vicende, fosse in qualche modo partecipe del destino finale di Livio, immaginando lui stesso il proseguo della vicenda partendo da quanto appreso fra le pagine lette. Volevo che non ci fosse un vero punto di chiusura. La vita non è mai così, ti lascia sempre una possibilità di scelta. Il famoso libero arbitrio. Ho scelto quindi di fare da ponte fra il lettore e il protagonista, in modo che al termine, uno vedesse nell’altro un poco di sé stesso e immaginasse l’evolversi della vicenda oltre il termine delle pagine. E’ stata la cosa più difficile immaginare questa soluzione: ma d’altronde anche la più naturale. La vita non dà certezze, ti permette di immaginare quale potrà essere il futuro, ma ogni istante tutto può cambiare. Esiste un’avventura più incredibile di questa?

Presentazione presso Libreria dell’Avventura con il raccontastorie Simone Saccucci e il giornalista Stefano Lamorgese (foto Matteo Sciamplicotti)

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