Joseph Vilsmaier (Germania / 2010 / 104’ / Drammatico)
Monaco, 24 settembre 1970. Il dottor Karl Maria Herrligkoffer sta tenendo una conferenza sulla spedizione che ha vittoriosamente guidato pochi mesi prima alla conquista della vetta del Nanga Parbat (8125m). L’impresa consisteva nello scalare “la montagna del destino” nel Karakorum Himalayano per la parete Rupal, una muraglia inviolata di oltre quattromila metri nel versante meridionale. Interviene inaspettatamente Reinhold Messner per confutarne le parole e raccontare la propria versione di quanto accaduto.
Un salto nel passato, la storia di Reinhold e Günther Messner
Un salto nel passato. I giovani fratelli altoatesini Reinhold e Günther Messner scalano le vette dolomitiche sognando nella loro innocenza di raggiungere le cime più alte del mondo. Dalla scalata adolescenziale dell’abside della chiesa paesana alla nona montagna più alta del mondo (“Non era solo arrivare in cima, ma affrontare pericoli, precipizi, rischi. Affrontare tutto questo con meno attrezzatura possibile. Era questa la felicità”). Il film ripercorre i loro passi in verticale fino a quel 27 giugno 1970, quando l’impresa fu compiuta gloriosamente ma fu solo l’inizio di una tragedia di cui il fratello minore rimase vittima.

Joseph Vilsmaier mette in scena vittorie e disgrazie di quella mormorata spedizione in una docufiction di cento minuti ricca di temi e conflitti, “che racconta fatti e non interpretazioni” – parole di Messner – “Non è una vendetta personale. È una storia che parla di responsabilità reciproca, del rapporto tra fratello maggiore e minore. Un’avventura e una tragedia”. (“Quella montagna ci ha unito uno all’altro come mai prima, ci capivamo senza parlare, senza doverci dare spiegazioni”). La ricostruzione dei fatti è molto dettagliata, lo stesso Messner ha collaborato alla stesura della sceneggiatura e il suo punto di vista è essenziale per la comprensione di ciò che realmente è accaduto.
La vicenda infatti è rimasta nebulosa e largamente contestata fino al 2005, con il ritrovamento del corpo di Gunther ai piedi della parete Diamir, ma ha pesato per decenni sull’immagine dell’alpinista che fu accusato di aver lasciato morire il fratello per inseguire le sue ambizioni personali.

Secondo la più veritiera ricostruzione dei fatti, dopo aver raggiunto la vetta della “killer mountain” con una salita estenuante in stile alpino e senza l’ausilio dell’ossigeno, Günther accusò sintomi di mal di montagna, così il fratello maggiore si fece carico di guidarlo verso il più facile versante Diamir, compiendo contestualmente la prima traversata di un Ottomila. Un’impresa nell’impresa, se non che il fratello minore durante la discesa sparì, probabilmente travolto da una valanga. Dopo averlo cercato senza successo, Reinhold scese da solo, ricomparendo al campo base dopo 6 giorni, con gravi congelamenti a mani e piedi. A scatenare le accuse contro il sopravvissuto furono i due compagni di spedizione, Max von Kienlin e Hans Saler, i quali lo incolparono di aver costretto il fratello a scendere per la Rupal, imboccando da solo la discesa più facile, per arrivare prima al campo base e ottenere onori e gloria (“È destino dei fratelli minori rimanere all’ombra dei fratelli maggiori”).

Il regista affonda efficacemente il suo sguardo dentro i personaggi carismatici, alla ricerca dei loro difetti e dei loro limiti, a volte sfiorando il caricaturale ma sempre mantenendo veridicità. L’anarchia, la determinazione e l’egocentrismo di Reinhold in contrasto con l’innocente caparbietà di Günther; il conflitto tra il necessario gioco di squadra e la rivalità individualistica degli alpinisti (“Per arrivare c’è bisogno di una buona cordata e ambizione”); l’opposizione contro il capo Herrligkoffer, di cui i fratelli non condividevano tecnica e strategia, nonostante nel 1953 avesse già guidato con successo Hermann Buhl alla prima scalata del Nanga (“Significa che lo scalatore sarebbe un artista? E si comporta in modo egoista come un artista?” – “È egoista quanto il suo mecenate. Se un quadro è bello tutti ci guadagnano“).
Il flashback; l’influenza della famiglia
Nei flashback viene accennata la tenerezza della madre e l’autorità del padre, mentre in chiusura è enfatizzato al massimo il rimorso del fratello sopravvissuto (“Chi si prende la responsabilità spesso si fa carico anche del dolore, e della colpa. E con la colpa arriva la paura, e nel momento in cui la paura ha il sopravvento arriva la salvezza”). La comprensione della psicologia dei protagonisti è quindi il vero successo del film, che viene impreziosito da aneddoti importanti raccontati direttamente da Messner e finalizzati a raccontare la crescita dell’uomo e dell’alpinista, sempre in relazione all’immagine di suo fratello.

Il film, quindi, biografico e non documentario, mette in scenda un’odissea inenarrabile di resistenza, ma allo stesso tempo si fa tramite del messaggio più intimo dell’alpinismo: la montagna non è fatta di percorsi prestabiliti, ma di esperienze di vita in cui ogni scelta si intreccia con un destino ineluttabile, mentre la vetta equivale alla comprensione di noi stessi e alla alla vittoria sui propri limiti (“Per Karl il Nanga sarà sempre la montagna del destino, ma è solo una montagna, una formazione geologica. Siamo noi ad attribuirle un’emozione”).
Lo sapevi che…
Alcune scene sono state girate in Pakistan sorvolando la parete Rupal del Nanga Parbat fino a 7.000 metri: “Bisogna essere pazzi per salire quassù” ha commentato il regista a Messner. Altre scene di scalata sono state invece girate sulle Alpi.
In Italia il film non ha avuto distribuzione, ma lo si può trovare in italiano, preceduto dal commento di Reinhold Messner, su YouTube a questo link.