Si ringrazia la casa editrice Ricerche&Redazioni per aver reso possibile la recensione di questo libro.
Marcello Maranella è stato per molti anni direttore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga ed è da sempre impegnato nelle tematiche ambientali.
Nel suo ruolo dirigenziale all’interno dell’Ente Parco ha avuto modo di curare alcuni progetti di conservazione della biodiversità patrocinati a livello europeo, avendo riguardo ad alcuni aspetti da sempre centrali nella gestione di un’area protetta, quali il rapporto tra fauna selvatica e attività antropiche, la salvaguardia di fauna in particolare pericolo di estinzione, flora rara e molti altri.

Il libro
Ritengo che il libro rappresenti un “must” per chi si interessa di aree protette, poiché testimonia la vita interna di un Ente deputato per legge alla salvaguardia della natura, con tutte le problematiche a questa connesse, quali – ad es. – il contemperamento delle diverse esigenze sussistenti nel territorio, in una continua e a volte stridente tensione tra richieste di salvaguardia e richieste di sviluppo.
Appena pubblicato, il libro ebbe molto successo fuori dalle mura regionali, riscuotendo consensi soprattutto in Piemonte, ove fu presentato nell’ambito del Salone Nazionale del Libro di Torino.
Prima del terremoto del 2009
Lo scritto è diviso in due parti, la prima delle quali, più emozionale, “fa i conti” con l’evento funesto della storia recente del centro Italia, il terremoto del 2009 a L’Aquila, il quale, interessando direttamente i territori del Parco, ha costretto gli addetti ai lavori a rivedere e rimodulare l’azione dell’Ente anche con riguardo alle nascenti nuove problematiche dipendenti dal disastro tellurico (fra tutte, l’indisponibilità sopravvenuta di strutture idonee).

Le “buone pratiche”
La seconda parte è dedicata, invece, al tema centrale delle c.d. “buone pratiche” attuate in conformità della legge quadro sulle aree protette e descrive una serie di progetti portati avanti dal PNGML in attuazione del suo compito istituzionale prevalente, cioè la salvaguardia e “conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche” ecc.
È vero che essi sono tutti sullo stesso piano per importanza, ma credo sia doveroso segnalarne uno, sul quale bisognerebbe sollevare forse un più acceso dibattito.
Mi riferisco al PATOM (Piano d’azione per la tutela dell’Orso marsicano), un patto sottoscritto nel 2006 e avente la Regione Abruzzo come capofila che ha (o forse sarebbe meglio dire “avrebbe”) come obiettivo quello di salvaguardare dall’estinzione l’endemismo più importante dell’Appennino, appunto l’Orso marsicano.

Le autorità competenti alla sua attuazione, tra cui enti locali e Regioni, sono molte, ma la concretezza delle azioni sembra molto lontana dall’essere effettiva ed efficace. I parchi sembrano essere lasciati al loro destino anche sotto questo punto di vista, tanto da spingere le associazioni ambientaliste, tra cui alcune costituite appositamente per la salvaguardia del plantigrado, a lamentarsi della stasi vigente al momento a causa delle amministrazioni pubbliche preposte, sorde come non mai alle istanza di tutela della biodiversità.
Proprio la sordità della politica verso questi temi fa da spunto a una riflessione più ampia e importante che il libro “A contar camosci sulla Conca del Sambuco” secondo me comporta, ed è quella sul destino delle aree protette in Italia e, in particolare, in Abruzzo, alla soglia dei trenta anni dalla emanazione della legge quadro, la 394/91.
Forse sarebbe ora di fare un bilancio serio sul ruolo di questi enti nella nostra Regione onde verificare cosa effettivamente ha comportato l’istituzione di tre parchi nazionali, uno regionale e svariate riserve. Bisogna chiedersi cioè se i parchi abbiano svolto il loro ruolo di salvaguardia e tutela degli habitat e della biodiversità, magari favorendo anche lo sviluppo sostenibile delle popolazioni locali, oppure no.
La situazione del Parco regionale Velino-Sirente
I numeri più impietosi si hanno quasi sicuramente con riferimento al Parco regionale Velino-Sirente, Ente che ormai da anni sembra aver rinunciato alla sua funzione, favorendo il ritorno di vecchi spauracchi tipici italiani come la speculazione edilizia (vedasi progetti di nuovi impianti sciistici).
Esistente solo sulla carta, se ne invoca una “nazionalizzazione” per cercare di farlo uscire dai pantani in cui versa dopo anni di commissariamento.
E’ forse il Parco che più di tutti non è riuscito a inserirsi nel tessuto sociale, culturale ed economico del territorio, ancora troppo lusingato dalle blandizie stagionali dello sci da discesa.

Sembrerebbe andar meglio per il Parco della Majella e quello del Gran Sasso, ma anch’essi risentono in maniera più o meno generalizzata della mancanza di volontà politica nel renderli occasione di rilancio per i territori interessanti. Si pensi, solo per fare un esempio, al fatto che il Parco del Gran Sasso era fino a poco tempo fa ancora privo del fondamentale atto amministrativo dell’Ente, il Piano del parco, rimasto in attesa di approvazione negli uffici regionali per svariati anni.
Il Parco nazionale d’Abruzzo
Infine, il Parco nazionale d’Abruzzo, l’ente più rappresentativo che è lì sulla veneranda soglia dei cento anni. Un bilancio, quello del PNALM, da ritenersi accettabile, anche solo perché – pur con le luci e ombre che nella sua lunga storia ne hanno caratterizzato l’operato – ha contribuito più di qualunque altro alla salvaguardia degli habitat e delle specie, barcamenandosi positivamente tra le svariate esigenze proveniente dai territori.
L’intervista a Marcello Maranella
Proprio da qui vorrei partire con l’intervista all’autore Marcello Maranella e aprire un piccolo momento di riflessione sulle pagine di Appennino.tv circa il destino e l’importanza in Abruzzo delle aree protette.
Marcello, innanzitutto grazie per la tua simpatia e disponibilità. Nel libro la legge 394/91 occupa un posto importante, tu gli fai spesso riferimento. Per un amante della natura e dei parchi come me leggerlo è stato veramente un piacere, perché ho potuto ascoltare una testimonianza dalla viva voce di un esperto del settore. Purtroppo, il tema dei parchi – in particolare – e della salvaguardia dell’ambiente – in generale – in Abruzzo sono poco sentiti dalla popolazione. Ancora c’è molto da fare. Alla soglia dei trenta anni dalla sua emanazione, cosa pensi della legge 394/91, che, come molte leggi in Italia, è considerata una delle meno attuate?
Sono sempre più convinto che se non ci fosse stata la Legge Quadro per la salvaguardia ambientale non avremmo conseguito nella nostra bella penisola alcun risultato significativo. Gli ideatori e i legislatori dell’epoca possono considerarsi parte attiva e lungimirante della storia del Paese del secolo scorso. In relazione alla sua attualità ci sarebbe molto da osservare dopo tentativi parziali di aggiornamento che pure vi sono stati negli anni scorsi. Occorrerebbe un salto di qualità non solo dal punto di vista normativo e burocratico. Se c’è oggi un sistema nazionale di Parchi e aree marine protette molto si deve alla Legge 394/91. Ma proprio il devastante terremoto del 2016 nel cuore dell’Appennino con i pesanti problemi della ricostruzione e la tragedia mondiale del coronavirus, tuttora incombente, impongono un modello di sviluppo alternativo e ampiamente sostenibile. La nuova generazione di dirigenti dovrà essere adeguata alle sfide dell’innovazione in campo ambientale con scelte politiche chiare, con risorse economiche sufficienti e con una formazione professionale di eccellente qualità.
Come giudichi la situazione aree protette in Abruzzo nel presente e come credi possa essere in futuro, anche in un’ottica di rilancio delle zone interne?
Qui entra in ballo anche l’immagine della Regione, un tempo definita verde d’Europa, il cui governo deve essere coerente con l’azione dei tre Parchi Nazionali che ospita in Abruzzo. Occorrono investimenti seri di tutela di uno dei territori più affascinanti dal punto di vista naturalistico. Chi poteva immaginare che l’inquinamento crescente e dissennato avrebbe un giorno riguardato la non potabilità del purissimo acquifero del Gran Sasso? Senza dimenticare i problemi legati allo spopolamento dei borghi che rischia di cancellare storie e leggende millenarie di inedita attrazione turistica e culturale.
Qual è la tua personale idea di Parco? Bisogna intenderlo come un’area intoccabile, alla stregua dell’idea di wilderness americana, o è possibile all’interno di un Parco coniugare esigenze di tutela ed esigenze di sviluppo sostenibile?
Quando rientro nei territori del “mio” Parco con binocolo e macchina fotografica preferisco coglierne le atmosfere intime fra alberi monumentali dei boschi vetusti e sentieri disegnati dalla natura che non chiamerei selvaggia e neppure americana. E’ semplicemente bellezza del creato, inteso come valore universale pur nella diversità dei luoghi. Se invece devo consigliare escursioni e vacanze ad amici che spesso non conoscono le meraviglie delle nostre montagne ritengo sia utile introdurli in sentieri accessibili e piuttosto sicuri per ritemprare soprattutto la mente. E poi sostare in compagnia di buon cibo fra agricoltori e ristoratori custodi dei prodotti tipici del Parco: dal pecorino di Farindola al canestrato di Castel del Monte, dalle lenticchie di Santo Stefano di Sessanio alla patata turchesa, dai funghi del Ceppo alla mortadella di Campotosto. Sono solo alcuni esempi per guidarli in un unico Parco con due territori contigui – Gran Sasso e Monti della Laga – caratterizzati dai Distretti Turistici e culturali e dai Presidi a marchio Slow Food, dove l’accoglienza è piacere di ricevere e la tutela della natura è altamente condivisa.
Passando al tema centrale delle “buone pratiche”, ti piacerebbe riferirci qualche episodio/ricordo che più ti ha colpito nella tua carriera? Mi parlavi di un aneddoto che ha dato il nome al libro …
Spesso nel mio lavoro di direzione dell’ente cercavo di conciliare gli aspetti amministrativi con i sopralluoghi sul campo insieme ai tecnici e agli agenti forestali. Quella della Conca del Sambuco fu la mia prima uscita per andare a verificare all’alba come crescevano i camosci nell’ambito di un progetto di reintroduzione di una delle specie di fauna selvatica più interessanti. Un distillato di emozioni e sensazioni con le vedette in cresta che ci scrutavano immobili mentre i primi raggi di sole preannunciavano una splendida giornata ottobrina in cima alle vette del Gran Sasso. Cos’altro?
C’è un progetto da cui ti sei sentito particolarmente preso? Cosa mi dici sul PATOM, di cui ho parlato sopra?
Un progetto importante e ambizioso che tuttavia non ha dato i frutti sperati. Le vicende di protezione e cura ma anche di repressione dell’orso marsicano sono ben note anche fra i non addetti ai lavori. Dal mio punto di vista il plantigrado non è solo il simbolo del Parco Nazionale d’Abruzzo. E’ in gioco l’esistenza di un predatore che accresce positivamente l’immaginario collettivo con i suoi avvicinamenti negli abitati in cerca di cibo e con gli sconfinamenti recentissimi nel Parco del Gran Sasso dove, forse, ha scoperto un corridoio ecologico che noi avevamo predisposto anni fa. Sono tutte ragioni validissime per tornare a studiarne comportamenti e pregi ambientali.
Ringraziamo Marcello per la gentile disponibilità.