La catena degli Appennini oltre ad essere la “spina dorsale” del nostro paese, è anche una catena montuosa intrisa di segreti, storie fantastiche e fantastiche realtà scientifiche che nel corso dei secoli hanno affascinato ed incuriosito scienziati di tutto il mondo.
Caratterizzata da una quasi totale assenza di rocce metamorfiche (tranne poche eccezioni), in Appennino vi sono diversi siti dove si possono ritrovare numerose tracce fossili.
La zona della val Arda
Una delle zone più conosciute per la sua ricchezza fossilifera è la zona della val Arda in provincia di Piacenza. Quì sin dal medioevo vennero alla luce numerosi fossili (cetacei, conchiglie, vertebrati marini e non solo) che nel corso dei secoli hanno portato, data la loro importanza scientifica (paleoambientale e paleoclimatica) alla istituzione del piano geologico detto per l’appunto piacenziano.
Ma cosa successe in queste “terre” da 8 milioni di anni ad oggi? E perchè oggi in mezzo alle montagne troviamo fossili di balena?

Un po’ di cronologia
Il Mediterraneo fu, per molto tempo un pezzo di oceano Atlantico caratterizzato dalla presenza di coralli e pesci tipici del mondo tropicale.
A causa poi degli spostamenti verso N/E della placca africana 5,6 milioni di anni fà circa, lo stretto di Gibilterra si chiuse con conseguente riduzzione dei collegamenti con l’Atlantico. Inoltre la formazione della calotta Artica causò una importante diminuzione del livello delle poche acque presenti.
Al posto del mediterraneo, oramai in completa regressione, si sollevarono gli Appennini ed i pesci che lo popolavano oramai depositati sul fondale trovano nuova dimora nelle rocce sedimentarie di cui questa parte dell’Appennino è costituita.
Sono ormai più di 500 anni che nei calanchi dell’Appennino piacentino, vengono ritrovati le testimonianze e le prove di questo “golfo pliocenico – padano”.
Le prime testimonianze
La prima testimonianza “scientifica” di questi ritrovamentici viene da uno scienziato illustre, Leonardo da Vinci. Il genio vinciano per primo capì l’origine organica di queste strane rocce e le studiò (codice Leicester foglio 9).
Chi contribuì maggiormente alla ricerca ed alla conoscenza del Pliocene locale fu Giuseppe Cortesi, che ogni volta affioravano nuovi esemplari li raccolse dando vita ad una collezione unica che attirò nel piacentino le più grandi menti scientifiche del 17° e 18° secolo..
Arriviamo infine al 1858 quando Carl Mayer definisce per la prima volta il Piacenziano (Foto 1); prendendo come riferimento quegli affioramenti che oggi sono in parte sepolti e/o distrutti posizionati tra Lugagano v.Arda e Castell’Arquato. Conosciute anche come “Argille azzurre di Lugagnano” data la particolare colorazione che prendono durante l’alba ed il tramonto, si possono ancora osservarne piccoli affioramenti nei pressi del cimitero di Vernasca e lungo le scarpate dei terreni agricoli della basa v.Arda

Queste “argille azzurre” sono un punto di riferimento per tutto la lunghezza dell’Appennino settentrionale in quanto esse si estendono da Alessandria fino a Bologna indicando in questo modo un orizzonte ben preciso e facilmente individuabile.
La Riserva del piacenziano
Al fine di tutelare questa terreni straordinariamente ricchi di reperti fossili (foto 2 e 3), nel 1995 è stata istituita “La Riserva del piacenziano”, poi dal 2011 “Parco dello stirone e piacenziano”.


Questi terreni riconducibili ad una fascia di media-bassa montagna sono gli stessi terreni che gli agricoltori hanno da secoli usato per impiantare le proprie viti. Su queste terreni infatti vengono impiantate vitigni per dare origine a vini quali Gutturnio, Ortrugo e Trebbiano, dal caratteristico “frizzantino” naturale che gli deriva da questi terreni di origine marina, ricchi di carbonati CO3— e fossili.
Approfondimenti
– Guide geologiche regionali BeMa editrice – ISBN 978871431727
– Saggi geologici degli stati di Parma e Piacenza
Immagini tratte da “Nelle terre del piacenziano” di Francou C. edito da Fondazione Cassa di risparmio di Piacenza e Vigevano – ISBN 978000000828