Il grande alpinista e climber polacco Marcin “Yeti” Tomaszewski apre il libro “Tato” -nella traduzione italiana edito da Versante Sud- con il racconto di come è sfuggito alla morte in un crepaccio di un ghiacciaio patagonico.
Un evento che segnò in modo irreversibile il suo approccio all’alpinismo e la sua visione della vita. Dopo quell’episodio, in cui a salvarlo dalla mortale trappola di ghiaccio fu il compagno Tom Ballard, Marcin capisce di aver avuto una seconda possibilità.
“Da quel momento la mia spedizione più grande, quella destinata a non avere mai fine, divenne il viaggio nel profondo di me stesso”.
Dopo questo prologo -che sembra aprire un cerchio che si chiuderà soltanto alla fine del libro- parte il racconto vero e proprio della spedizione sullo Jannu, una Montagna Sacra per gli abitanti del luogo, da sempre ammantata da straordinarie leggende.
L’obiettivo di questa spedizione del 2019, accompagnata da una produzione cinematografica, è la grande parete orientale, rimasta ancora inviolata, dello Jannu (o Kumbhakarna), una montagna di 7711 m. della catena himalayana in Nepal.

L’intento della regista Eliza Kubarska era di girare un docufilm sulla scalata della cosidetta “parete delle ombre”. A comporre la squadra, oltre la troupe cinematografica e Tomaszewski, ci sono i due alpinisti russi Dmitrij Golovchenko e Sergej Nilov, tra i migliori scalatori al mondo.

La maggior parte del libro è occupata dal racconto di questa spedizione, ma al di là del resoconto della scalata, che Tomaszewski si troverà fin troppo presto ad abbandonare, il vero leitmotiv che percorre tutta la narrazione e costituisce il cuore pulsante del libro è il conflitto interiore che vive in quanto padre e alpinista.
“Mi chiedo dove sia la linea che segna il confine tra l’essere padre e l’essere un uomo che assume un rischio collegato alla sua passione. Qual è quel punto in cui si può permettere di accettare la morte in cambio di una grande idea oppure di rinunciare alla stessa per poi poterlo raccontare ai propri figli?”
Tomaszewski muove più riflessioni, cercando di dare una risposta alla domanda se sia possibile conciliare i rischi dell’alpinismo con la genitorialità, l’essere alpinista con l’essere un genitore, un marito, un figlio.
Dopo la sofferta decisione di rinunciare al tentativo della vetta insieme agli altri due russi, Marcin si ritrova per la prima volta “dall’altra parte della frontiera”, nel ruolo, per lui inedito, di chi semplicemente attende.
“Sono convinto che è molto più facile starsene in parete che aspettare con un senso d’impotenza”.
Questo rovesciamento di prospettiva che gli fa mettere i panni abitualmente vestiti dai suoi familiari, gli fa capire quale è “il pedaggio che esigiamo dai nostri cari”, cosa significa vivere in costante allarme e nella frustrazione dell’impotenza.


Nella parte conclusiva del libro Tomaszewski ipotizza ciò che sarebbe potuto accadere se non si fosse salvato da incidenti occorsi nella sua vita da alpinista: se non fosse sfuggito alla morte in quel crepaccio, cosa avrebbero pensato le persone più vicine e care, cosa avrebbero raccontato di lui moglie e figli?
Riprendendo il tema della morte con il quale aveva avviato la narrazione sembra così chiudersi il cerchio aperto all’inizio del libro. Se tutti i capitoli precedenti sono intervallati da foto della spedizione, quest’ultima parte di pura letteratura è invece arricchita dai disegni della figlia che contribuiscono a rendere queste lettere di fantasia particolarmente intime.

Oltre che un libro sulla scalata di un’importante montagna, “Tato” -titolo eloquente che, tradotto in italiano, significa “papà” – è un libro che si interroga sulla responsabilità umana e sul tema della scelta, sull’incessante ricerca di ognuno di noi di trovare quell’equilibrio tra egoismo e condivisione, tra passioni e rinuncia, tra ragione e follia necessario alla vita e al mantenimento dei legami e degli affetti.
Tomaszewski ci vuol ricordare che raggiungere la vetta non è sempre la più grande sfida che attende un alpinista e raggiungere la vetta a tutti i costi non è sempre l’azione più eroica che si possa compiere.