Intervista di Tatiana Marras
Le croci di vetta rappresentano un tema di ampio interesse sia tra quanti abbiano nei loro confronti un approccio di tipo sia religioso che agnostico. A confermarlo la significativa partecipazione di auditori alla presentazione del volume “Croci di vetta in Appennino” (Ed. Ciampi), a cura di Ines Millesimi, storica dell’arte e attualmente dottoranda presso l’Università degli Studi della Tuscia, svoltosi sabato 17 dicembre presso l’Aula Magna del polo universitario di Rieti.
Il volume di 300 pagine, con prefazione a cura di Erri De Luca e postfazione del Premio Strega 2017 Paolo Cognetti, si presenta come primo catalogo in Italia per fasce altimetriche con mappe cartografiche e microstorie delle croci di vetta appenniniche, con un taglio transdisciplinare e un approccio laico. Come evidenziato in corso di presentazione dall’autrice, è difficile inserirlo in una singola categoria letteraria. Diventa più facile definire a quali esso non appartenga: non è una guida escursionistica, non è un compendio di storia dell’arte. È per certo una sorgente di riflessioni, su quella che è la storia dei celebri segni antropici che si trovano disseminati sulle vette, appenniniche ma non solo, così come su quello che potrebbe o dovrebbe essere il loro futuro.
Riflessioni, come egregiamente espresso da Erri De Luca sul palco dell’Aula Magna, su molteplici temi, quali il concetto del confine – “La superficie terrestre riconosce solo due confini, quelli con il mare e quello con il cielo” – ma anche la evoluzione del simbolo della croce, “un patibolo romano sul quale i Romani esponevano per condanna a morte, per asfissia, i corpi dei condannati“, nudi perché fossero esposti a umiliazione, “uno strumento di tortura e morte” trasformato nel mondo cristiano in simbolo di “riscatto e redenzione”. Un simbolo che viene posizionato sulle vette come la prima croce della cristanità, quella su cui morì Gesù, issata sul Golgota, a rappresentare l’arrivo a quel confine con il cielo oltre cui non si può andare. Un volume che invita a riflettere ma anche a infilarsi gli scarponi e andare alla ricerca di vecchie e nuove cime.
Il viaggio tra le croci di vetta di Ines Millesimi ha preso il via dai Monti Reatini, le vette che circondano il corso di laurea in Scienze della Montagna, per poi spaziare lungo la dorsale appenninica, a partire dai 2000 metri di quota, dall’Appennino tosco-emiliano a quello lucano, ed è durato oltre un anno. Abbiamo voluto chiedere all’autrice di raccontarci da dove sia nata tale idea, e come essa sia stata sviluppata, per arrivare alla stesura di questo libro caleidoscopico.

Una sala gremita ha accolto l’autrice e i relatori: il prof. Bartolomeo Schirone, promotore della istituzione (ed ex Presidente) del Corso di Laurea in Scienze della Montagna di Rieti, Ordinario di selvicoltura e assestamento forestale presso l’Università degli Studi della Tuscia; Erri De Luca, alpinista e scrittore; Marco Valentini, Consigliere di Stato e docente UniCatt (Milano) e Antonio Pica, dottorando presso l’Università degli Studi della Tuscia.
Ines può raccontarci da dove nasce questo interesse per le croci di vetta?
L’origine di questo desiderio nasce probabilmente a livello molto profondo e recondito, perché da piccola io ero stata instradata all’archeologia, mi occupavo di scavi nelle tombe e questo rapporto col sacro è stato per me sempre molto intenso. Io ho un atteggiamento agnostico, inizialmente verso le croci di vetta provavo un senso quasi di repulsa, ero molto contraria. Dopo questo libro guardo tutto con grande rispetto e grande ammirazione, perché in effetti la croce di vetta sintetizza tantissime cose.
Possiamo parlare di un lavoro inedito o vi è qualcuno che in precedenza abbia effettuato una simile catalogazione?
La distribuzione delle croci di vetta non è mai stata studiata su micro né su macroscala in Italia. Un catalogo similare è stato fatto in Austria, però selezionando le più belle tra le croci dell’arco alpino e transalpino.
Quanto tempo ha impiegato per realizzare questo volume?
Un anno, lavorando tutti i giorni 12 ore al giorno, compresi i fine settimana senza sosta, con una bella lombosciatalgia per stare tutto il tempo seduta (sorride).
Un lavoro che, come accennava nella presentazione, è stato svolto in cordata. Tante sono le persone che hanno contribuito al risultato. Vogliamo citare qualcuno in particolare?
Sicuramente Giuseppe Albrizio, Giuseppe D’annunzio e Francesco Mancini del Club 2000m ma anche i tanti trekkers del Club 2000m, soci CAI, che volontariamente hanno dato contributi gratuiti e di alta competenza a questo lavoro che dunque credo si possa collocare nell’ambito della cosiddetta citizen science. Doveroso è anche ringraziare il Club Alpino italiano – Comitato scientifico centrale – Gruppo Terre Alte e l’Università degli Studi della Tuscia, che insieme al Club 2000m hanno concesso il patrocinio al mio lavoro.
In termini tecnici, per ogni croce raggiunta, quali elementi sono stati analizzati (e riportati nelle schede del volume)?
L’aspetto geografico, lo stato di conservazione, le microstorie e le persone legate a queste apposizioni e anche il contesto culturale.
Quante croci di vetta sono state raggiunte e analizzate in questo anno?
Sono state mappate 66 su 261 croci, sui Monti Reatini tra i 1200 m e i 2000 m, lungo la dorsale appenninica dai 2000 m in su. La quota di partenza scelta per i Monti Reatini, 1200 m, non è scelta a caso ma utilizzata dal Ministero dei Beni culturali per definire la montagna sottoposta a vincolo di tutela ambientale in Appennino.
Nel volume le croci non sono soltanto descritte ma anche mappate. In questo lavoro cartografico, essendo lei una storica dell’arte, si è avvalsa di un compagno di cordata più esperto nel campo?
Sì, ad aiutarmi è stato un collega di dottorato dell’Università degli Studi della Tuscia, Antonio Pica.
Aprendo una parentesi sul dottorato, una scelta post lauream oggetto di riflessioni al pari delle croci di vetta, si sente di consigliarla come esperienza?
Assolutamente sì, io devo ringraziare il dottorato perché una parte del mio cervello si era atrofizzata, la parte più scientifica, ed è stato occasione per imparare tantissime cose e conoscere persone magnifiche, molto colte. Secondo me è una bellissima esperienza che non è detto si faccia a 25 anni per trovare lavoro ma si può fare anche a 60 se si ha molta tenacia.
Qual è la sua opinione in merito al futuro di queste croci: bisogna lasciarle dove sono o toglierle?
Il libro lancia un messaggio al mondo non solo alpinistico, ma anche a quello dei comuni, dei parchi, ovvero che bisogna prendersi cura del territorio, inclusi i segni lasciati dall’uomo, come le croci di vetta. Prendersene cura significa sottoporle a manutenzione, anche per evitare che diventino pericolose in caso di crolli. La croce non va demonizzata come immagine confessionale, almeno non come poteva essere nei primi del Novecento. La croce è un simbolo trasversale tra le civiltà, la troviamo persino nelle incisioni rupestri della Val Camonica. Bisogna superare il dilemma croce sì, croce no. In merito a nuove apposizioni, personalmente guardo con rispetto le croci nella misura in cui sono discrete e non impattanti sul paesaggio, però secondo me è il momento di fare un passo indietro. Mettere una croce o una bandiera è come marchiare il territorio. Lasciamoci alle spalle questo senso di conquista di inizio Novecento e intraprendiamo un percorso nuovo, fondato sul valore del rispetto. Questo vuol dire scegliere ad esempio nuovi modi per segnare una vetta, come gli ometti di pietra, pietre a secco posizionate le une sulle altre, di origine locale e dalla facile manutenzione.
Dobbiamo considerare questo libro un punto di arrivo o un punto di partenza?
Il lavoro fin qui svolto, che ha dato vita al volume, è propedeutico a ciò che mi aspetta nel prossimo anno di dottorato. Tra l’altro vi dico che mi è arrivata di recente una mail dalla CIPRA International che mi chiede se vogliamo iniziare anche il lavoro sulle Alpi. Mi sento un po’ precipitare perché il lavoro si fa davvero complicato, anche perché, in conseguenza del cambiamento climatico, molte cime sono diventate estremamente pericolose. Ho già schedato con dei collaboratori 32 croci di vetta oltre i 3000 m sulle Dolomiti, e parliamo di una piccola parte delle Alpi. Nel prossimo anno l’idea è di far diventare alcune croci dei casi studio. Con il prof. Schirone stiamo immaginando, con il supporto di Enea e CNR, di individuare alcune croci a traliccio oltre i 2000 metri per posizionare temporaneamente alcuni dispositivi per studiare il clima in quota. E si ipotizza anche di effettuare dei carotaggi per analizzare l’inquinamento antropico a tali quote.
Mi auguro che si faccia il possibile per assicurare e promuovere l’installazione di croci sulle vette di Appennini ed Alpi.