Il faggio è una specie arborea forestale che vive tra gli 800 e i 2000 m, ma siamo sicuri che sia sempre stato così? Un articolo da poco pubblicato mostra come il faggio, in passato, occupasse una superficie molto più estesa rispetto a quella attuale. Lo spostamento di questa specie verso altitudini più elevate e la sua scomparsa dalle zone di pianura poste sotto i 300 m di quota sarebbero dovuti alla combinazione di diversi fattori come l’attività antropica e i cambiamenti climatici.








Il faggio (Fagus sylvatica) è una specie molto diffusa in Europa, infatti, essa è presente dalla Sicilia alla Scandinavia e dalla penisola iberica ai Carpazi. In Italia, quest’albero è presente in tutte le regioni tranne che in Sardegna e, attualmente, le faggete rappresentano una delle coperture forestali più diffuse in Italia. Per le sue caratteristiche tecnologiche il legno di faggio è stato ed è tuttora utilizzato per diversi usi; storicamente, soprattutto nell’Italia peninsulare, era impiegato come legna da ardere e soprattutto per la produzione di carbone grazie al suo elevato potenziale energetico.
Oggigiorno il faggio è presente in Italia principalmente nella fascia altitudinale compresa tra gli 800 e i 2000 m sopra il livello del mare (s.l.m.), dove forma soprattutto boschi puri. Tuttavia, piccoli nuclei e individui isolati possono essere rinvenuti anche a quote inferiori ai 200 m s.l.m. La sua presenza a quote così elevate è da sempre stata spiegata, da botanici e degli ecologi, dal fatto che ci potessero essere dei limiti imposti essenzialmente dalle condizioni climatiche (come per esempio scarse precipitazioni ed elevate temperature). In una parte della comunità scientifica, tuttavia, l’idea che in passato il faggio occupasse una fascia altitudinale ben più ampia si era fatta strada da tempo, anche in base a diverse osservazioni di campo che suggerivano di indagare meglio sul significato di questi “relitti”.
Uno studio appena pubblicato su un’importante rivista scientifica, “Science of The Total Environment”, dal titolo “Shedding light on the effects of climate and anthropogenic pressures on the disappearance of Fagus sylvatica in the Italian lowlands: evidence from archaeo-anthracology and spatial analyses” prova a fare chiarezza su tale argomento (qui il lavoro completo: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0048969723015097?via%3Dihub). Tale studio è stato condotto da Mauro Buonincontri (archeobotanico presso il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena), Luciano Bosso (Ecologo che collabora con il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di “Napoli Federico II”) e Sonia Smeraldo (Ecologa che collabora con il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”) e con la supervisione di Salvatore Pasta (Ricercatore presso l’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del CNR di Palermo), Maria Luisa Chiusano (Professoressa di Biologia Molecolare presso il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”) e Gaetano di Pasquale (Professore di Tecnologia del Legno e Utilizzazioni Forestali presso il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Per realizzare un’idea di ricerca simile è stato utilizzato un approccio interdisciplinare che consentisse di ottenere dati spazialmente e cronologicamente precisi e attendibili sulla storia e sulla distribuzione passata del F. sylvatica in Italia. Per questo motivo gli autori hanno scelto di recuperare dati archeobotanici, in altre parole identificazioni di materiali botanici provenienti da siti archeologici posti a quote inferiori a 600 m che attestano la presenza del faggio per una cronologia che copre gli ultimi 4000 anni, per poi incrociarli con avanzate metodologie di GIS e di modellistica ecologica in maniera da ricostruire, almeno potenzialmente, la distribuzione delle faggete in passato nel nostro paese. Gli autori hanno quindi realizzato delle mappe di presenza/assenza di faggio nel passato e al presente in Italia e, dopo averle confrontate, hanno mostrato le differenze tra le due distribuzioni e come le variabili climatiche e antropiche hanno influito sulla scomparsa del faggio a varie altitudini.
Questo lavoro costituisce quindi uno dei primi tentativi di realizzare un approccio multidisciplinare, finalizzato ad interpretare la storia del faggio e a quantificare l’impatto del clima e dell’uomo su questa specie a diverse fasce altitudinali ma con un occhio di riguardo alle aree poste al di sotto dei 300 m s.l.m. I risultati mostrati nel lavoro spiegano come l’effetto combinato dell’attività umana e dei cambiamenti climatici hanno fortemente influenzato la scomparsa del faggio nei boschi italiani negli ultimi 4000 anni, soprattutto nelle fasce poste a bassa quota come per la pianura e la collina. In particolare, nel corso degli ultimi quattro millenni, la distribuzione potenziale del faggio si è ridotta di circa il 48% e la specie si è progressivamente spostata verso l’alto di circa 200 m. I risultati ottenuti prodotti da lavoro mostrano anche che il cambiamento climatico sembra aver impattato tutto l’intervallo altimetrico in cui il faggio era diffuso, cioè dal livello del mare a oltre 900 m, mentre l’impatto antropico ha avuto effetti rilevanti maggiormente a quote comprese tra 0 e 50 m s.l.m.
Quindi sembra essere chiaro che invece di chiamare in causa un singolo fattore naturale come il clima, come è stato fatto sino a oggi da molti studiosi, lo spostamento a quote più alte del faggio può quindi essere spiegato in maniera più convincente ipotizzando l’azione sinergica di diversi fattori. I risultati di questo approccio metodologico originale ed innovativo che visto interagire archeobotanici, esperti di analisi spaziale ed ecologi forestali, hanno permesso di raggiungere risultati di grande importanza per comprendere meglio le complicate interazioni “clima-pianta-uomo” e quindi mettere in evidenza il ruolo del dato storico dei nostri boschi nella pianificazione di corrette strategie di conservazione e ripristino. Concludendo, gli autori ci tengono a precisare che l’approccio metodologico utilizzato per studiare il faggio in questo studio appena pubblicato, può essere applicato tranquillamente anche ad altre specie e persino ad intere comunità forestali, che, oltre a svolgere un ruolo per la mitigazione dei cambiamenti climatici in atto, anche per la conservazione dell’elevata biodiversità che ospitano.
Testo a cura di Luciano Bosso