Agli escursionisti e alpinisti che nel corso dell’estate tornano, anno dopo anno, nel massiccio del Gran Sasso d’Italia, sarà capitato di notare la presenza di alcuni sentieri che, nell’arco di 12 mesi, sembrano essersi “consumati”. Più degradati, più sabbiosi, più “rovinati”, come se qualcosa o qualcuno si fosse divertito a tritare finemente il substrato roccioso su cui poggiamo gli scarponi. Ne sono esempi il sentiero che da Campo Imperatore conduce alla Sella di Monte Aquila e di lì verso la cima del Corno Grande o quello che dalla Madonnina sale verso il Rifugio Franchetti, punto di partenza verso le salite al Corno Grande e Corno Piccolo.
Sentieri storici, il primo percorso dal Capitano Francesco De Marchi nella prima salita dell’agosto 1573 e il secondo da Orazio Delfico nel luglio 1794, e vie, praticamente obbligatorie, di accesso alle alte cime, le così dette “vie normali”, che risultano particolarmente battuti nel corso dei mesi estivi. Il secondo ancora più del primo in quanto servito da una comoda cabinovia che facilita la salita dai Prati di Tivo anche ai meno allenati e meno avvezzi all’ambiente montano.
Sorge spontanea la domanda: si tratta di un fenomeno naturale o è forse proprio l’uomo la causa di tale stato di progressivo e accelerato degrado di alcuni itinerari? Abbiamo sottoposto quello che si è rivelato essere un quesito dalla non facile risoluzione al dottor Massimo Pecci, geologo, ricercatore del Comitato Glaciologico Italiano (www.glaciologia.it), da circa 30 anni responsabile del monitoraggio del ghiacciaio del Calderone, e professore a contratto in “Glaciologia e nivologia” a Scienze della Montagna (UNITUS, Polo di Rieti), che della presenza e del passaggio dell’uomo in montagna e alta montagna ha avuto modo di occuparsi ampiamente, con specifico riferimento al Gran Sasso d’Italia. Un massiccio ben noto all’esperto non solo per gli studi scientifici condotti, ma anche per l’attività di istruttore di alpinismo del C.A.I. che ha svolto e svolge spesso in loco.
La parola al dottor Pecci
La domanda è molto interessante e vi dico che, oramai, l’uomo rientra tra i cosiddetti agenti modificatori geomorfologici. È infatti in grado di modellare il paesaggio terrestre, comportandosi, a tutti gli effetti, come un agente geomorfologico. Al Gran Sasso in maniera più limitata e concentrata nel tempo e nello spazio, ma esattamente come quelli più potenti, quali la gravità, che si manifesta nei fenomeni franosi; il carsismo, che è un fenomeno diffusamente presente sul Gran Sasso data la natura prevalentemente carbonatica del substrato; l’erosione spesso operata in maniera violentissima e rapidissima dalle acque correnti. E ancora, i processi crionivali, legati alla presenza e all’azione dell’acqua allo stato solido.
L’attività antropica si va a inserire in tale lista come ultima in ordine di tempo, ma non sempre in odine di importanza. Possiamo dunque considerare l’uomo come un agente geomorfologico “giovane”, ma quanto? Lo è diventato dopo la rivoluzione industriale, al termine della Piccola Età Glaciale, attiva tra la fine del XVI secolo, periodo in cui si aveva la percezione della montagna come ambiente da temere, e la fine del XIX secolo. A fine XVIII secolo, con l’avvento dell’Illuminismo, è iniziata una fase esplorativa della montagna, sia in termini di conquista delle vette che di accresciuto interesse scientifico, e così sì è dato il via a un processo di scoperta ma anche di progressiva alterazione di un equilibrio preesistente.
Fatta tale premessa, per entrare nel dettaglio di cosa stia succedendo su alcuni sentieri del massiccio del Gran Sasso, e di quanto pesi in tale contesto la presenza dell’uomo, ci affideremo ai dati che è in grado di fornirci la geomorfologia. Una disciplina perfetta allo scopo, in quanto abbraccia un tempo più ristretto rispetto a quello geologico, consentendo di apprezzare anche fenomeni che avvengono su scala temporale umana. Per analizzare il fenomeno prenderemo come riferimento due carte geomorfologiche relative alla zona della vetta del Gran Sasso. Una carta geomorfologica è una carta tematica che cerca di rappresentare con colori e simboli la realtà del territorio, gli agenti e i processi che, dal punto di vista naturale e non, agiscono su di esso, e metterne in evidenza l’evoluzione.
Si tratta del prodotto di due attività di rilevamento sul terreno concentrate prima sulla zona orientale (carta del 2003) e poi occidentale (carta del 2011) dell’area di vetta del Gran Sasso, mantenendo come area di analisi comune quella del Calderone e quella delle cime più alte (Corno Grande e Piccolo), zona ad alta frequentazione antropica. Una scelta finalizzata a valutare anche se, nel corso di una manciata di anni, fosse apprezzabile da un semplice rilievo (dunque una fotografia riportata su carta), qualche cambiamento. E purtroppo qualcosa è cambiato, non sempre in meglio.
Spicca, in particolare, la veloce modificazione dei contorni del ghiacciaio del Calderone, l’evidente “macchia” in celeste al centro della Carta, che negli anni immediatamente precedenti alla pubblicazione della prima, proprio a cavallo dei due millenni, si è separato in due apparati più piccoli (glacionevati), cosa che risulta maggiormente evidente nella carta più recente.
Andando a focalizzare l’attenzione sulla zona della Madonnina-Pietra della Luna, le due carte confermano quella che è l’impressione che si può avere anche a occhio nudo, anno dopo anno. La zona è sottoposta a una progressiva erosione e degrado, e tra le cause di tale degrado vi è l’uomo. Si tratta di un’area interessata dal passaggio non solo degli escursionisti e degli alpinisti diretti verso le cime più alte del massiccio, ma anche di turisti, perché proprio lì nei pressi arriva la cabinovia che sale da Prati di Tivo.
Molti arrivano magari dalla costa, in cerca di refrigerio, e camminano in maniera poco consapevole nella zona. Fanno una passeggiata, poi, eventualmente, raspando e, talora, scivolando, muovendo il detrito verso valle, si rendono conto che è pericoloso e tornano indietro, dopo aver percorso le prime centinaia di metri di sentiero, laddove la pendenza aumenta e in cui, quindi, l’azione dell’uomo si rende evidente di anno in anno.
Il problema di questa azione erosiva concentrata sui sentieri, strettamente legata all’uomo, è dunque noto, da anni. E anche il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, che ben conosce la problematica, ha cercato di contrastare tale degrado in loco con un intervento di ingegneria naturalistica, che non ha riportato l’area all’originaria naturale situazione, pur fermando l’erosione indotta dal calpestio, in gergo tecnico inglese “trampling”.
È colpa solo dell’uomo se tali sentieri “si consumano”?
L’uomo rappresenta di per sé un agente erosivo, ma la sua capacità modificatrice e talora “distruttiva” dipende soprattutto dalle caratteristiche di resistenza del substrato che incontra. Nelle carte troviamo dei diversi colori di fondo che indicano le diverse tipologie di roccia (litotipi). Le zone di passaggio tra un colore e l’altro possono rappresentare potenziali zone di debolezza, se le rocce a contatto manifestano gradi di resistenza molto differenti.
Cosa che avviene nella zona in esame, alla sommità dell’Arapietra dove si notano bene, per la differenza di colore, brecce e conglomerati carbonatici abbastanza cementati, pleistocenici, e, quindi, “giovani” rispetto alle zone di colore havana o rosate che sono invece propriamente carbonatiche, derivanti dalla trasformazione in roccia degli originari sedimenti di piattaforma carbonatica dell’antico mare della Tetide, risalenti a centinaia di milioni di anni fa. Più un substrato delle stesse caratteristiche litologiche, nel nostro caso carbonatiche, è antico, più è resistente. Più è giovane e più tende ad essere meno resistente.
Una roccia di tipo carbonatico, poi, ha una resistenza maggiore rispetto a rocce più deboli, o terreni, come nel caso delle argille e delle sabbie non cementate. Un esempio di zona fragile in tal senso è quella dei Prati di Tivo, che si nota, più a valle della Madonnina, al di sotto della scritta “Pietra della Luna”, come una evidente area bianca tra campiture in azzurro nella carta del 2003, area in cui l’azione erosiva legata alla gravità risulta particolarmente evidente. E infatti notiamo anche dei simboli particolari, di triangolini rossi, aperti e con la punta verso il basso, che danno anche una indicazione del movimento di quella che di fatto è una grossa frana, in alcune zone più attiva e in altre meno, che caratterizza tutti la zona a pascolo a monte dei Prati, arrivando fin quasi alla base.
I calcari di per sé sono substrati più resistenti, ma tale resistenza viene meno se sono interessati da fratturazione di origine tettonica o gravitativa. Se ci sono linee di fratturazione/debolezza che li percorrono, soprattutto se di origine tettonica, la roccia da solida perde resistenza, in quanto già sollecitata nel corso del tempo geologico.
Un substrato di per sé fragile, sarà tanto più predisposto a lasciarsi erodere quanto maggiore risulta essere la combinazione di agenti geomorfologici che vi agiscono, identificati sulla mappa con simboli diversi, come le linee rosse, per la gravità, o marroni, per la tettonica.
Accanto alla resistenza del substrato, un altro fattore da considerare nel mix di ingredienti alla base del degrado di alcuni itinerari, è anche la presenza, e i percorsi abituali, degli animali. Ci sono animali liberi, come i branchi di camosci che hanno ripopolato l’area, il lupo e ungulati anche abbastanza imponenti, ma anche bestiame, governato nei pascoli o gestito allo stato semibrado che quotidianamente si muovono sugli stessi percorsi, che risultano maggiormente erosi e approfonditi se in presenza di rocce e terreni meno resistenti, come quelli già visti, coinvolti in movimenti franosi lenti a monte dei Prati di Tivo.
È possibile intervenire per frenare questi processi degradativi?
Si potrebbe pensare di spostare i sentieri, ma è, effettivamente, possibile? E ne vale la pena?
Sulle Dolomiti, patrimonio dell’Umanità UNESCO, che hanno iniziato ad affrontare già da tempo questo problema, con una frequentazione del territorio di vari ordini superiore a quella del Gran Sasso, si è intervenuto spostando alcuni sentieri, di qualche decina di metri, anche delocalizzandoli ove possibile. Ma possiamo considerarla una soluzione? In caso di una frequentazione crescente, o, addirittura, di sovraffollamento, semplicemente si rischia di spostare il problema da A a B.
Si può intervenire stabilizzando, ma il risultato dipende da come lo si fa. Si possono ottenere ottimi risultati nel caso in cui si mettano in opera dei progetti di ingegneria naturalistica a basso impatto sul paesaggio. Ma molte volte si interviene in maniera disarmonica, e in tal caso il consolidamento può rivelarsi peggiorativo (non parliamo in questo caso del Gran Sasso, ma in senso generale).
Qui di seguito possiamo vedere 2 foto scattate a distanza di circa 20 anni (2003 vs 2022) della zona maggiormente degradata in origine a monte della Madonnina, dove il sentiero comincia a salire in pendenza e a farsi più faticoso. Si nota bene come nella zona oggetto di un intervento di ingegneria naturalistica il suolo si sia riformato e il prato l’abbia di nuovo ricoperto. Si è dunque ottenuto il risultato cercato. Tenete conto che prima dell’intervento le persone normalmente scendevano proprio lungo la massima pendenza, dove sono installate le barriere in legno, a partire dal punto in cui vedete la persona in arancione nella foto del 2003, su un ghiaioncino che rendeva anche divertente la discesa.


Risulta anche evidente che appena al di fuori dell’areale dell’intervento le cose sono rimaste praticamente uguali, e forse è anche questo un risultato. Tenendo conto che almeno un percorso di attraversamento del massiccio N-S (dai Prati di Tivo a Campo Imperatore) va garantito, proprio perché storicamente presente da “secoli”.
Se non ci sono alternative, e soprattutto se un sentiero diventa estremamente pericoloso, allora l’unica soluzione è interdirlo in maniera temporanea, al fine di ottenere, con un intervento mirato e con un tempo dedicato alla rinaturalizzazione, un suo ripristino completo. Con riferimento ai sentieri del Gran Sasso, come quello che parte dalla Madonnina e dall’Osservatorio di Campo Imperatore, pur all’interno della zona di protezione speciale del Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga, come detto, siamo lungo itinerari ad alta frequentazione, ancora a quote non sommitali e con una presenza antropica ormai pluridecennale, comprensiva anche di impianti, piste da sci, installazioni scientifiche e turistiche, opere di difesa, etc. Non in un’area unica nell’Appennino e di grande “fragilità” ambientale, come può essere quella del ghiacciaio del Calderone.
Le prime, i sentieri storici, le vie normali, per intenderci, ad alta frequentazione, sono zone in cui vige una protezione ambientale, ma in cui sembra non ragionevole e materialmente poco realizzabile una interdizione a tempo indeterminato. Si tratta di una zona storicamente frequentata da alpinisti ed escursionisti, c’è sì la natura da preservare ma anche da tenere conto di una comunità locale che vive di turismo, strenuamente e con tante difficoltà, non ultime quelle legate alla natura e alla sua dinamica, che si esprime con terremoti e, data l’elevatissima energia del rilievo, anche con fenomeni franosi e valanghe.
Per trovare le soluzioni migliori va affrontato il problema nella sua complessità, in maniera sistemica, riunendo attorno a un tavolo, meglio se sul territorio, tutti gli attori, compresa la popolazione, come sino ad ora si è cercato di fare, e come, d’altronde, raccomanda l’Onu nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030. Il tavolo su cui riunire tutti i protagonisti dovrebbe essere, nello specifico, quello dell’Ente Parco. Solo in tal modo si potrebbe arrivare alla migliore soluzione possibile e in una prospettiva temporale lunga che comprenda anche le future generazioni (non solo umane…). Altrimenti si finisce per andare avanti a soluzioni tampone.
Sono interessato a commenti/ discussioni su quanto proposto nell’articolo.