Per gli amanti delle vette appenniniche, il Calderone è “uno di famiglia”. Un ghiacciaio, l’ultimo d’Appennino, cui ci si sente legati nel profondo. Inevitabile, nel corso di quella che si è rivelata essere una delle estati più calde di cui si abbia memoria, ritrovarsi a pensare “chissà come se la passa il Calderone?”. Definirlo ghiacciaio, come ci insegnano gli esperti, in realtà non è neanche più corretto. Ghiacciaio non lo è più. Eppure è lì, come può confermare chi sia salito nelle scorse settimane sul versante teramano del Gran Sasso. Abbiamo chiesto al dott. Massimo Pecci, geologo, ricercatore del Comitato Glaciologico Italiano responsabile da circa 30 anni del monitoraggio del ghiacciaio del Calderone, e professore a contratto in “Glaciologia e nivologia” a Scienze della Montagna (UNITUS) di aiutarci a comprendere cosa sia oggi il ghiacciaio del Calderone, come appariva nel passato e quali previsioni si possano fare sul suo futuro.

Dott. Pecci, partiamo da una domanda essenziale: cosa è un ghiacciaio?

Alle nostre latitudini il ghiacciaio è un elemento fondamentale del paesaggio e dell’ecosistema montano. A latitudini più elevate, sia boreali che australi, la situazione appare diversa: i ghiacciai li troviamo addirittura al livello del mare o galleggianti sull’oceano, inseriti dunque anche nell’ecosistema marino. Su Alpi e Appennini sono presenti ad alte quote, e qui svolgono una funzione primaria nei confronti della vita degli ecosistemi: nella stagione invernale raccolgono le precipitazioni in forma solida (o anche liquida, con successivo congelamento) e le immagazzinano per poi restituirle nella stagione più calda, quando c’è più necessità di acqua allo stato liquido per tutti i processi vitali. Rappresentano dunque delle risorse idriche fondamentali.

Sempre con riferimento alle nostre zone, un ghiacciaio appare come una massa di acqua solidificata, raccolta in particolari aree di forma concava, spesso poste tra alte vette, definite circhi glaciali. Qui la neve ha modo di accumularsi e trasformarsi nel corso degli anni in firn e poi in ghiaccio. Per effetto della gravità questa massa è soggetta a uno scivolamento verso valle. Non solo…dal momento che questo movimento avviene su di un substrato irregolare, allo scivolamento si associa anche una componente di deformazione. Scivolando e deformandosi, la massa di ghiaccio, erodendo e asportando materiale dal substrato, va ad alimentare la lingua del ghiacciaio, che è il secondo elemento distintivo di un ghiacciaio, a valle del circo, quindi della zona di accumulo, fino a raggiungere la zona frontale, meno ripida e a quote inferiori.

Qui il ghiaccio sarà maggiormente preda delle temperature più elevate, dovute non solo all’aria più calda e al calore derivante dai raggi solari, ma anche all’attrito con le rocce, e tramite fusione, potrà rendere disponibile acqua allo stato liquido. Siamo in quella che viene definita la zona di ablazione. Quindi in un ghiacciaio in “buono stato di salute” possiamo individuare una zona o bacino di accumulo più a monte, di solito morfologicamente coincidente con uno o più circhi, e una zona, a valle, di ablazione, morfologicamente evidenziata dalla lingua. Il limite tra queste due zone è individuata dalla linea di equilibrio che, spesso, viene messa in evidenza a fine stagione estiva da una zona di transizione, normalmente a valle dei circhi e lungo la lingua glaciale, in cui la neve “superstite” dell’inverno precedente, più a monte, lascia il posto al ghiaccio scoperto, in ablazione.

Detto tutto questo, si comprende bene anche un altro ruolo fondamentale del ghiacciaio, quello di modellatore e “scultore” della superficie terrestre, con questa sua incessante azione, nei luoghi dove il processo geomorfologico è presente e attivo, di erosione, trasporto e sedimentazione di ciottoli e detriti (depositi) glaciali.

Compreso cosa sia un ghiacciaio, ci spiega perché il Calderone non lo sia più?

Il Calderone era fino a pochi anni fa l’unico ghiacciaio ancora esistente in Appennino, ma, come avete detto bene, ghiacciaio non lo è neanche più. Dal 2000 si è infatti separato in due placche in corrispondenza della zona mediana, dove emergono delle rocce calcaree definite “montonate”, in quanto lisciate, come il dorso di un montone, dall’azione del ghiacciaio ritiratosi. Questo affioramento roccioso segna il confine tra il glacionevato superiore e quello inferiore, che rappresenta la parte più ampia del “fu-ghiacciaio”, quella che raccoglie ancora i maggiori quantitativi di ghiaccio.

Il Calderone a inizio stagione di ablazione (14 giugno 2022) – Foto Massimo Pecci

Apriamo una parentesi: cos’è un glacionevato. È lo stadio terminale della vita di un ghiacciaio. Dicevamo prima che un ghiacciaio è un sistema dinamico: presenta un accumulo di massa glaciale a monte e il suo trasporto/distribuzione verso il basso, indotti da un mix di scivolamento e deformazione. Quando il clima diventa ostile per elevate temperature e scarse precipitazioni, questo meccanismo si ferma. Il ghiacciaio non ha più a disposizione nuova massa, e non solo non riesce più a trasferirla verso valle, perdendo progressivamente la lingua, ma si assiste a una fusione del ghiacciaio nelle sue parti periferiche, con una conseguente riduzione di superficie e volume.

Un ghiacciaio conserva il suo status, secondo la convenzione internazionale, finché presenti una superficie superiore ai 5 ettari e una vitalità espressa da un trasferimento di massa dalle zone superiori verso quelle inferiori. E la sua “vitalità” è testimoniata in superficie, come ben sanno gli alpinisti, dalla presenza di crepacci e da seracchi. Il Calderone presenta una superficie complessiva dei due glacionevati inferiore a 5 ettari, non evidenzia più una sua dinamica, non mostra seraccate nelle zone a maggiore pendenza, nè più crepacci longitudinali e trasversali lungo tutta la sua superficie, soprattutto nelle zone di ablazione e nemmeno una copertura nevosa al di sopra del ghiaccio, che solo raramente riesce a superare le ultime torride estati, “rintanandosi” nelle zone morfologicamente più riparate e meno esposte alla radiazione solare diretta.

La frammentazione cui è andato incontro l’originario apparato unitario  del Calderone si riscontra in molti altri piccoli ghiacciai delle latitudini medie e tropicali, dove si assiste a un aumento complessivo del numero di “ghiacciai”, a causa della frammentazione, indicativa di uno stato di sofferenza, e non per formazione di nuovi ghiacciai.

Può raccontarci chi era il Calderone?

Negli anni Novanta il ghiacciaio conservava ancora una superficie di circa 6 ettari, e presentava ancora un crepaccio nella zona mediana. A fine anni Novanta in questa zona centrale il ghiaccio si è assottigliato, e, nell’estate del 2000, sono apparse le rocce montonate, suddividendo l’apparato unitario in due placche di ghiaccio (i glacionevati di cui abbiamo già parlato). Finché era un ghiacciaio, sia il Comitato Glaciologico Italiano per cui io svolgo attività di monitoraggio da oramai 30 anni, che il World Glacier Monitoring Service, a livello internazionale, erano concordi nel classificarlo primariamente come ghiacciaio montano, con forma a circo. Secondo alcune vecchie classificazioni, come quella di Ardito Desio, veniva definito di II ordine, di circo anche con l’attributo di “pirenaico”.

Questo ghiacciaio montano di circo è entrato in uno stato di progressiva sofferenza a causa delle elevate temperature, cresciute sempre più dagli anni Ottanta ad oggi, non solo in termini di intensità (gradi) ma anche di durata della stagione estiva e di anomalie della temperatura estiva, che negli ultimi 2/3 anni sono state registrate e citate spesso sui giornali come “zero termico” frequentemente al di sopra dei 4000-5000 metri e, anche nell’estate in corso, per tanti giorni al di sopra dei 5000 m, quindi al di sopra della più alte vette, nel nostro caso del Corno Grande, ma, più in generale per il territorio montuoso italiano, dell’intera catena alpina.

È possibile stimare quanti anni ancora resisterà prima di scomparire del tutto?

Riuscire a stimare lo scenario evolutivo del ghiacciaio risulta essenziale, come dicevamo in apertura, perché siamo di fronte a una importante risorsa idrica. Oltre che per il legame identitario con il territorio e per la relazione che, in un certo senso, siamo portati a sviluppare nei suoi confronti, perché finiamo per personificarlo. Avere una risposta univoca e precisa sul numero di anni di sopravvivenza del Calderone sarebbe ottimo, ma purtroppo ci troviamo a navigare a vista.

Partiamo col dire che, nonostante abbia perso il suo status di ghiacciaio, il Calderone, oramai nei 2 glacionevati in cui risulta articolato, sia da considerarsi comunque un sistema glaciale resiliente. A partire dal 1993 è stata ripresa sul ghiacciaio (dopo le osservazioni ultradecennali dell’Ing. Tonini nel secolo scorso, a cavallo della II guerra mondiale) la valutazione del bilancio di massa, ovvero la differenza tra accumulo e perdite del ghiacciaio nell’arco di un anno glaciologico (o idrologico). Dal primo anno glaciologico di analisi, ovvero il 1994-1995, ad oggi, la curva relativa alla variazione del bilancio di massa nel tempo risulta orientata verso il basso, con alcune pulsazioni positive negli anni 2007 e 2010. In quasi 30 anni sono andati perduti circa 10.000 mm di equivalente in acqua, pari a circa 10 metri di ghiaccio superficiali. Superficiali perché con i metodi di misura tradizionali dei bilanci di massa, su cui torneremo a breve, siamo in grado di analizzare in maniera diretta solo quello che avviene in superficie.

Se andiamo a osservare nel dettaglio l’andamento della curva notiamo però una particolarità. Fino al 1999-2000, quando abbiamo detto che l’apparato unitario si è frammentato in due glacionevati, la perdita era di circa 1.000 mm annui, dunque 1 metro circa di ghiaccio l’anno. Tutto lasciava presupporre che la fine del Calderone fosse vicina; le misure effettuate negli stessi anni con il georadar indicavano uno spessore massimo di poco più di 25 metri, dunque in circa 25-30 anni ci saremmo dovuti aspettare una scomparsa totale del ghiacciaio.

Siamo arrivati al 2023 e il Calderone non gode di ottima salute, ma, pur se frammentato, è ancora presente. E le ultime misurazioni che sono state fatte la primavera dello scorso anno (aprile 2022) nell’ambito del progetto Ice Memory del CNR, cui ha collaborato il Comitato Glaciologico Italiano – progetto che ha come scopo la raccolta di carote glaciali di ghiacciai particolarmente significativi in giro per il mondo, da conservare per le future generazioni – lo spessore rilevato attraverso la perforazione glaciale è risultato essere pari a circa 27 metri. Un dato di molto superiore alle migliori aspettative.

Scusi l’interruzione: come fa il Calderone a resistere, addirittura verosimilmente a incrementare di spessore invece che perderlo come previsto?

L’incremento è solo apparente, in quanto è più ragionevole pensare ad una sorta di “riorganizzazione” interna dell’apparato e di un adattamento al substrato (peraltro sottoscavato sempre dallo stesso ghiacciaio, in epoche di precedente ottimo stato di salute). Ma torniamo alla sua resilienza, possibile… grazie a una “coperta” di detriti, con spessori che spaziano da pochi centimetri a 1-2 metri, composta soprattutto di detriti calcarei, di colore biancastro grigiastro, i cosiddetti depositi glaciali (morene) superficiali, che ricoprono interamente i due glacionevati, evitando l’esposizione diretta del ghiaccio all’aria e alla luce del sole. Tale copertura protegge il ghiaccio e riflette, grazie al suo colore, la radiazione incidente, evitandone così la fusione superficiale. Tale dinamica si riscontra in quelli che, secondo la terminologia scientifica anglosassone, sono definiti debris covered glaciers, letteralmente ghiacciai ricoperti da detriti.

Prego, torniamo pure al discorso del bilancio di massa

Torniamo un istante sul discorso dello spessore superficiale. Vi dicevo del bilancio di massa, calcolato sulla base di misurazioni superficiali, perché non disponiamo, nel monitoraggio ordinario, di tecnologie (come le perforazioni) tali da consentirci analisi dirette di ciò che avviene in profondità, al contatto del ghiaccio con il substrato. Nel dettaglio, vediamo come si misura il bilancio di massa. Fino a pochi anni fa le misurazioni venivano effettuate posizionando delle paline sulla superficie glaciale, infisse nel ghiaccio con una sonda termica o con un sistema di carotaggio leggero e trasportabile senza grossa fatica o difficoltà. Si lasciavano emergere solo gli ultimi decimetri a fine stagione estiva, si aspettava l’inverno e poi si andava a vedere un anno dopo cosa era successo, quanta palina emergesse dal ghiaccio, o meno. Se si rilevava uno spessore inferiore all’estate precedente, significava che il ghiaccio era andato incontro a fusione. Al contrario, se lo spessore del nevato risultava aumentato, leggendo sulla palina un valore maggiore rispetto all’anno precedente, il bilancio di massa si poteva considerare positivo.

Ora questo metodo è stato abbandonato quasi dappertutto, perché, infilando una palina per pochi metri (2,5 metri, nel caso del Calderone) nel ghiaccio, al termine di una estate, in molti casi significa che l’anno dopo la ritrovi per terra, a causa della completa fusione dello spessore di ghiaccio in cui era stata infissa. Nell’era del cambiamento climatico e delle anomalie estreme di temperatura in alta montagna, bisogna usare metodi più pratici e efficienti e tecnologicamente avanzati, basati sull’uso di satelliti (metodi aero-spaziali), droni (metodi aerei) per fotogrammetria aerea e GPS per acquisire immagini digitali e sistemi geodetici di alta precisione (metodi terrestri) per georeferenziare (definire in maniera univoca, con coordinate geografiche e quota) i punti di misura.

Come dicevamo, non siamo in grado di stimare il bilancio di massa basato anche su dati di variazione rilevati in profondità, ma solo quelli superficiali: le immagini digitali aeree o terrestri vengono trasformate utilizzando i punti di controllo a terra, nell’ambito di un sistema informativo geografico, in modelli digitali della superficie; mettendo a confronto la superficie digitale del ghiacciaio, ottenuta a settembre dell’anno di interesse, con quella di fine estate dell’anno precedente, si è in grado di calcolare la variazione di spessore. Il gioco è quasi fatto (!), perché, conoscendo le superfici in cui sono avvenute queste variazioni, si possono calcolare le differenze dei volumi e, quindi, le variazioni del bilancio di massa glaciale per l’anno idrologico di interesse.

La tendenza messa in evidenza dall’analisi dei bilanci di massa nel corso degli ultimi decenni di monitoraggio annuale è che il ghiacciaio stia andando incontro a una progressiva e ulteriore riduzione. Potremmo assistere a una ulteriore frammentazione dei due glacionevati attualmente presenti ma non possiamo stimare il quando, perché il comportamento del sistema glaciale è stato altalenante negli ultimi 25/30 anni, come emerge anche dal grafico. Inoltre, gli accumuli invernali sono rimasti sempre abbastanza elevati, con dei picchi anche oltre i 12 metri di neve registrati a fine stagione invernale, dato raro anche sulle Alpi, vale a dire all’inizio della stagione estiva (o di ablazione, che coincide con la fine della stagione invernale, o di accumulo). In questi ultimi anni si sono registrati, in media, 3/5 metri di neve residua invernale, anche nelle annate peggiori. A fronte di tali accumuli, il problema è il trend delle temperature in crescita e delle estati prolungate, come quella del 2022, o quella del 2003, in cui lo zero termico, come già detto, rimane a lungo al di sopra delle vette più alte. In tali condizioni, l’apporto di neve invernale viene consumato completamente e si intacca anche lo spessore di ghiaccio sottostante.

E se cambiasse il trend climatico?

Iniziamo col dire che i ghiacciai abbiano tempi di risposta peculiari e diversi l’uno dall’altro. Non rispondono immediatamente a variazioni di temperature e dell’accumulo invernale in negativo o positivo. Nel caso degli apparati più piccoli tale risposta si manifesta in pochi anni, mentre ai ghiacciai più grandi può servire anche più di un decennio. È innegabile che ci piacerebbe vedere ricoperto di nuovo dal ghiaccio quel settore di rocce montonate, che separa i due glacionevati, perché sarebbe indicativo di una inversione di tendenza del riscaldamento. Significherebbe che tutti gli sforzi che si stanno mettendo in atto come comunità scientifica e umana, e che sono al nucleo dell’Agenda 2030 dell’ONU, stiano avendo effetto e siano per certi versi ricompensati.

6 thoughts on “Un viaggio nella storia (e uno sguardo al futuro) del Calderone, il “fu ghiacciaio” del Gran Sasso”

  1. Sulle alpi ho visto ghiacciai o nevai coperti con un telo bianco. (Immagino serva ad evitare lo scioglimento durante la stagione estiva. Perché non si fa anche sul Calderone?

    1. Lì non è necessario perché il ghiaccio è protetto da una coltre detritica che, per la natura delle rocce al contorno, è bianca.

      1. Articolo veramente ben scritto. Quanto alla copertura con i teli, data la piccola superficie, sarebbe un esperimento da fare per cercare di ricongiungere i due frammenti.

  2. Dire che questa estate 2023 sia stata una delle più calde in assoluto degli ultimi.idecdnni è una bugia insostenibile. Il caldo estivo cioè torrido c e stato solamente a luglio ed una settimana di agosto dove è piovuto il giorno 4 e la tenoerstura è scesa per non più rialzarsi se non per tre giorni dal 21 in poi. Il mese di maggio è stato più freddo della media, a giugno è piovuto 30 giorni con almeno uno scroscio al di. Settembre è stato più freddo che mai. Dovreste vergognarvi di inventare evidenti bugie.

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